
E’ il secondo ed, ahimè, ultimo album del gruppo pugliese il Baricentro.
Mi erano piaciuti con il loro primo album, ‘Sconcerto’, ma delle sonorità funky e fusion di Trusciant mi ero veramente innamorata.
Un disco di nicchia, per gli amanti del progressive.
C’è qualcosa in Trusciant che non si lascia afferrare del tutto. È come se il brano camminasse sull’acqua: ogni passo è chiaro, deciso, ma subito si dissolve in cerchi concentrici, lasciando intuire un centro che sfugge.
È musica che respira a occhi chiusi.
Il pianoforte — asciutto, mai decorativo — tesse linee oblique, frasi brevi che sembrano sospese tra pensiero e intuizione. Il basso fretless, con il suo suono morbido e pieno di spazio, scivola sotto la superficie come un’ombra complice. E poi le percussioni, leggere ma pulsanti, come se il cuore del brano non fosse il ritmo, ma la sua esitazione.
C’è tecnica, sì. Ma è come una calligrafia antica: la si sente, ma non disturba mai. È lì per sostenere la poesia, non per rubarle la scena.
Ogni sezione del brano è un respiro che si apre e si richiude su se stesso, come un pensiero che non riesce a trovare pace — e forse non la cerca nemmeno.
Trusciant è malinconia senza tristezza. È la sensazione di ricordare qualcosa che non è mai accaduto, ma che ha lasciato un segno dentro.
Ascoltarlo è come osservare una figura che ruota lentamente su sé stessa, senza mai cedere al caos, ma senza mai imporsi un ordine definitivo.
Un moto perpetuo dell’anima, dove l’equilibrio è sempre un istante prima di spezzarsi… e proprio per questo, così profondamente umano.
I bravi che preferisco sono due
Falò non è contemplazione: è slancio. È un fuoco che divampa d’improvviso, e non chiede permesso.
Dal primo istante, si sente un’urgenza vitale: un moto interno che spinge, corre, quasi inciampa su sé stesso pur di uscire fuori. Il tema si muove con nervi scoperti, come se le note fossero parole pensate troppo a lungo e finalmente liberate.
Il groove è teso, ma non rigido. C’è una sorta di corsa costante, una progressione che sembra sempre sul punto di superare se stessa. E l’ostinato del pianoforte, incalzante, costruisce frasi rapide ma non affrettate, precise come fendenti, calde come scintille.
Il bello è che Falò non perde mai il controllo, anche nei momenti più accesi. La struttura è solida, come un cerchio di pietre intorno alla fiamma. È questa tensione tra libertà e contenimento che lo rende così magnetico: ti trascina, ma non ti lascia andare alla deriva.
Qui il virtuosismo non è esibizione, è necessità. Come se ogni nota fosse stata trattenuta troppo a lungo, e adesso, finalmente, potesse bruciare.
Su un altro piano, Font’amara è come una sorgente che sgorga da una crepa del cuore. È il brano più denso, forse il più segreto. Ha qualcosa di arcaico, quasi rituale.
Il pianoforte scava, più che suonare. Le note sembrano staccate dal tempo, come se fossero venute alla luce da sole, senza una mano a guidarle.
La melodia è una linea spezzata, ma viva. Non segue una direzione chiara, ma porta con sé tutto il peso dell’emozione che cerca di diventare forma. L’armonia è instabile, ricca di tensioni sotterranee, che però non esplodono mai: restano lì, a vibrare sotto la superficie.
È un brano che non consola. Non vuole. Font’amara ti accompagna dentro il dolore senza cercare di addolcirlo. Ma proprio per questo, diventa catartico.
C’è una bellezza scura, quasi mistica, in quella lentezza che non promette nulla, se non l’onestà di esserci. Di sentire.
Ma gli altri non sono da meno.
La traccia omonima ha sonorità mediterranee che a me portano immediatamente alla mente la nostra musica popolare.
Akua potrebbe benissimo essere scambiato per un brano dei Weather Report.
Mentre Vivo mostra indiscutibilmente il lato jazzistico del gruppo.
Amici baresi mi hanno detto che trusciant indica una sorta di bagaglio improvvisato, che prepara velocemente chi si deve spostare.
E’ un gran peccato che sia stato un viaggio senza ritorno.