
Ieri sera ho iniziato a guardare i nuovi episodi della settima stagione di Black Mirror, la creatura visionaria di Charlie Brooker, da sempre specchio inquieto delle nostre paure digitali. Mi ha catturata Hotel Reverie, un episodio che – pur con qualche piccola ombra – mi ha lasciato addosso qualcosa di sottile e profondo. È una storia che parla di intelligenza artificiale, di identità e consapevolezza, di amore e finzione, ma lo fa con una grazia sospesa, pervasa da quella malinconia che io chiamo casa.
Avviso di spoiler: se non l’avete ancora visto, fermatevi qui. Lasciate che sia la storia, prima, a raccontarsi da sola.
Il racconto si svolge in un futuro non troppo lontano, dove una startup propone a una casa di produzione ormai esausta un’idea radicale: girare il remake di un film classico – chiaramente ispirato a Casablanca – interamente all’interno di un set virtuale, senza attori, senza troupe, senza luci né ombre reali. Solo Brandy, interpretata da Issa Rae, è autentica: immersa in un mondo simulato, interagisce in tempo reale con personaggi creati dall’intelligenza artificiale.
Nel film virtuale, Brandy diventa il dottor Alex Palmer, un personaggio impegnato a salvare Clara Ryce – ereditiera fragile e tormentata – da un marito assassino. Clara ha il volto e la voce di Dorothy Chambers, un’attrice scomparsa in giovane età, morta suicida, ma qui riportata in vita come simulacro. Brandy si ritrova, dunque, a recitare accanto a un’eco: una coscienza digitale intrisa di ricordi e tracce della donna che fu.
Quando un malfunzionamento le isola in una simulazione inceppata nel tempo, lo scenario si trasforma in una sorta di limbo sospeso. E lì, in quell’eternità provvisoria, Brandy svela a Clara la sua vera natura: non è reale, non è viva, è solo un riflesso programmato. Ma l’irreale può desiderare, può amare? La risposta – tenera, dolente, struggente – viene lasciata al cuore dello spettatore.
La trama non è del tutto nuova. Mi ha riportata con dolcezza a Il tredicesimo piano, il film del 1999 ispirato a Simulacron 3 di Galouye: anche lì, il confine tra realtà e simulazione si incrina sotto il peso delle emozioni. Anche lì, personaggi digitali si affacciano sull’abisso della propria inconsistenza, e in quell’abisso trovano un riflesso dell’umano.
Se posso muovere una critica, direi che la consapevolezza di Clara – la presa d’atto del proprio essere solo un costrutto – viene sfiorata con leggerezza, quasi con pudore. Una tale rivelazione, con tutto ciò che implica per la coscienza e per l’identità, avrebbe meritato più spazio, più respiro. Ma Emma Corrin riesce, con la sola intensità dello sguardo, a colmare in parte quel vuoto.
Anche Issa Rae è intensa, sebbene trattenuta dal ruolo stesso: la sua Brandy è una donna gettata in un’esperienza più grande di lei, e proprio per questo così vera, così vulnerabile. Il suo cammino la porta a un cambiamento radicale, da spettatrice diffidente a innamorata perduta, affascinata da ciò che non avrebbe mai creduto possibile amare.
E tutto questo è immerso in una luce malinconica, soffusa, che scivola lungo la figura evanescente di Dorothy – una presenza che aleggia ovunque e che vibra con la mia sensibilità. In quel velo di nostalgia c’è qualcosa che riconosco intimamente.
È una storia che lascia molte domande in sospeso. Forse la più evidente è un grido contro l’invasione silenziosa delle tecnologie digitali nell’arte, nel cinema, nella creazione. Dai tempi in cui Forrest Gump stringeva la mano a JFK, il sogno digitale ha fatto passi enormi – e oggi, l’idea di sostituire attori e sceneggiatori con software non è più distopia, ma possibilità.
Ma ci sono altre domande, più intime. Che cos’è l’identità, se può essere replicata? Che cos’è l’amore, se può nascere tra bit e memoria? Che cos’è l’anima, se può essere simulata?
E alla fine, tra le righe, forse rimane un messaggio sommesso ma potente:
che l’amore, in qualunque forma, può superare persino l’illusione di non esistere.
L’immagine sintetica è ispirata ad una delle scene dell’episodio.