Poinciana

Lo scoprii in un’epoca in cui la musica si cercava ancora con le mani, tra gli scaffali dei negozi di dischi. A Bari, da Discorama — qualcuno forse se lo ricorderà — At the Pershing faceva capolino nella vetrina, come un piccolo segreto in attesa di essere trovato.

La registrazione, a dire il vero, non é nulla di speciale dal punto di vista tecnico: monofonica, con applausi e voci di camerieri che sembravano appiccicati lì in post-produzione. Ma bastava lasciarsi avvolgere da quelle note per dimenticarlo. Perché la musica — quella sì — era pura meraviglia.

Per Ahmad Jamal, At the Pershing: But Not for Me fu una svolta, l’album che lo proiettò nell’olimpo del jazz. Registrato dal vivo il 16 gennaio 1958, rimase nella Billboard Hot 100 per 108 settimane, raggiunse il terzo posto, e superò il milione di copie vendute. Lui stesso lo definì “un disco perfetto”. E non aveva torto.

Ma al di là dei numeri, è l’atmosfera che mi colpì. Il trio — Jamal al pianoforte, Israel Crosby al contrabbasso, Vernel Fournier alla batteria — sembrava suonare come se stessero respirando insieme. Ogni pausa, ogni accento, ogni gioco ritmico aveva una leggerezza che non era mai banale, mai scontata.

Jamal non suonava per stupire. Suonava con intelligenza, ironia, sensibilità. Usava la mano sinistra con una ricchezza di voicing che non si può dimenticare, creava spazi di silenzio dove altri avrebbero riempito, e improvvisava come se ogni nota fosse necessaria. A tratti sembrava citare Haydn, altre volte lasciava filtrare frammenti di altri brani, come piccoli messaggi in bottiglia.

Poinciana, in particolare, mi ha sempre incantata. Quel ritmo trascinante, il drumming ipnotico di Fournier, la delicatezza con cui tutto si costruisce e poi si dissolve… mi sembrava di entrare in un sogno di mezzanotte, dove ogni cosa si muoveva al rallentatore, ma con una precisione quasi magica. Ho scoperto solo dopo che anche Keith Jarrett ne era rimasto stregato.

L’album dura meno di mezz’ora, e non contiene nemmeno un brano originale. Eppure, è uno di quei dischi che tornano, sempre. Quando ne ho bisogno, quando mi manca qualcosa e non so bene cosa. È come se in quelle tracce ci fosse un rifugio. O forse un luogo dove ritrovarmi.

At the Pershing è più di un disco. È una porta aperta su un modo di suonare — e di ascoltare — che non smette di insegnarmi qualcosa.

La foto è di youngrobv da Flickr, licenza CC BY-NC 2.0

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